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24 apr 2017

[Recensione] La storia della principessa splendente

(かぐや姫の物語, Kaguya-hime no monogatari, 2013)

Il regista Takahata Isao, co-fondatore dello Studio Ghibli, è sempre rimasto in ombra rispetto al collega Miyazaki Hayao, nonostante sia responsabile di capolavori come Una Tomba per le Lucciole. In questa sua ultima opera, frutto di ben otto anni di lavorazione, Takahata presenta una storia emotivamente ricca e potente, nonostante il materiale tutt'altro che originale, con uno stile sperimentale e classico al tempo stesso.

La trama, infatti, è basata sul Taketorimonogatari (Storia di un tagliabambù), un racconto popolare giapponese che viene fatto risalire addirittura al X secolo[1], di cui ricalca gli eventi principali dando però uno spin molto diverso al personaggio principale. Un anziano tagliabambù, durante un normale giorno di lavoro, nota una pianta che brilla di una luce eterea; avvicinatosi, da questa nasce un fiore che contiene una minuscola, ma splendida principessa, che presto si trasforma in un neonato. L'anziano e la moglie, che non hanno figli, la crescono con cura e amore nella vita bucolica dei contadini di montagna, alla quale la ragazza (che cresce con una rapidità innaturale) si abitua felicemente. Tuttavia, il padre è convinto che sia suo compito divino dare a questa fanciulla donata dal cielo una vita nobile degna della sua origine.

La storia quindi è molto semplice e, per chi ha letto il Taketorimonogatari, già nota nei suoi sviluppi importanti, ma Takahata e la sceneggiatrice Sakaguchi Riko riescono a darle uno spin in più. Lo fanno introducendo una serie di ulteriori conflitti nel personaggio di Kaguya, una tipica ragazza Ghibli vivace e amante della vita in montagna che si ritrova presto catapultata nella vita della capitale, lussuosa ma regolata dalle rigide norme sociali del periodo Heian, fra studi, reclusione e nobili pretendenti. Ho trovato interessante come quest'aspetto venga incapsulato perfettamente nei dialoghi, con il padre che si sforza ad adottare le più complesse forme di linguaggio onorifico keigo, risultando però forzato e innaturale, mentre Kaguya alterna abilmente i due stili di linguaggio adottando quello di corte come una facciata, una parte da recitare. Ottima, in questo senso, la resa nella traduzione italiana[2]. Come ci si può aspettare dallo Studio Ghibli, c'è nel film un bilancio perfetto fra comicità e dramma, favola e un accenno di temi sociali, realismo (il periodo storico è rappresentato con una cura formidabile, sia nella vita nobiliare che nella vita contadina) e fantastico, fino a un climax di pura magia che cade repentinamente in un finale sorprendentemente tragico e intenso nonostante la sua perfetta fedeltà al racconto originale.


Volendo, se ne può persino estrapolare un accenno di conflitto di classe e, in parte, di genere: Kaguya protesta gli standard di bellezza e comportamentali che ci si aspettava dalle dame nobili dell'epoca (norme molto rigide che limitavano molto gli spazi e le libertà delle donne nobili, ma al tempo stesso garantivano loro ogni agio, una servitù costante, studi artistico-letterari ampi e avanzati, e un’aura di intoccabile superiorità tale che nemmeno ai loro pretendenti di più alto rango era consentito anche solo vederle in faccia prima del matrimonio), e anela alla semplicità della vita di campagna (anche se questa significava lavorare come e quanto gli uomini[3]). Inoltre, rifiuta e combatte la sfacciataggine e la "violenza sociale" che solo l'Imperatore poteva permettersi.

Lo stile di disegno è totalmente diverso da quello a cui può essere abituato l'estimatore di Miyazaki: è semplice, ricco di colori pastello, può sembrare persino abbozzato e grezzo rispetto alla grandiosità di un Castello errante di Howl. Ma proprio in questa semplicità si nasconde, a mio avviso, il genio di Takahata: è un'estetica, infatti, che riprende lo stile delle pitture yamato-e e ukiyo-e[4], catturando quindi anche visivamente l'antichità della storia, dandole un aspetto più "sfumato", distante, da favola, appunto. Sembra davvero di vedere, fin dalle prime inquadrature della foresta di bambù, un ukiyo-e di Katsushika Hokusai prendere vita, dalle piante ai palazzi, dagli abiti alle espressioni. Il tutto, però, senza rinunciare alla cura per i dettagli e al dinamismo dell'animazione Ghibli. Il risultato è semplicemente straordinario, e eleva questa storia (letteralmente millenaria, eppure con ancora così tanto potenziale per emozionare e per risultare, in qualche modo, moderna) su un livello superiore rispetto a quanto avrebbe potuto fare uno stile "alla Miyazaki".

Se a tutto questo uniamo un doppiaggio di altissimo livello, e una colonna sonora straordinaria che unisce alla partitura orchestrale elementi di musica tradizionale giapponese, sotto forma di una canzone-filastrocca popolare[5] e di accenni di musica gagaku, appare chiaro che siamo di fronte a un capolavoro vero, di stile e di emozione, purtroppo passato tragicamente in sordina. Mi sento di consigliarlo davvero a tutti, essendo un film veramente per famiglie che può fungere anche da interessantissimo sguardo sulla storia e sulla cultura giapponesi. I fan dello Studio Ghibli lo apprezzeranno di sicuro, anche se qualcuno potrebbe avere difficoltà a superare il primo impatto con un disegno così profondamente diverso da quello, per così dire, miyazakiano, e per gli appassionati di anime in generale mi sento di definirlo un must.


[1] Viene considerato il più antico esempio di narrativa in Giappone, ed è stato già adattato in molti film e manga. Fra questi, ad esempio, La regina dei mille anni di Leiji Matsumoto.
[2] Chi conosce il giapponese sa che tradurre efficacemente il keigo in un’opera in cui deve risultare il suo contrasto con la parlata piana è un incubo.
[3] Come spesso succede, l’idea che nel passato le donne fossero sempre e totalmente sottomesse come oggetti risulta una semplificazione molto ingenua, che butta classi e ambienti molto diversi in un unico calderone, ignorando le complessità e le stratificazioni sociali di ogni specifico periodo storico in ogni specifica cultura.
[4] Dei periodi Heian e Edo, rispettivamente.
[5] In realtà scritta da Takahata stesso, ma perfettamente ascrivibile alla tradizione contadina giapponese sia per il testo che per la scala usata.
 

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