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29 mar 2017

[Essay] Sulla grammatica del linguaggio di genere in italiano

La questione del linguaggio di genere, ovvero dell'opportunità e l'importanza di marcare il femminile di parole quali "sindaco", "assessore" o "presidente", è stata a lungo dibattuta negli ultimi anni, in Italia e non solo. Nonostante le mie note posizioni contrarie a buona parte del femminismo contemporaneo, io sono convinto che questo argomento non sia solo, per coniare un termine, una "boldrinata": la lingua in cui parliamo è la lingua in cui pensiamo, e la lingua in cui pensiamo è indice delle categorie che usiamo per classificare la realtà. Tuttavia, anche questo discorso dovrebbe essere affrontato con un po' più di equilibrio da entrambe le parti. 

Sì,  sono totalmente d'accordo con l'idea che ostinarsi a dire "il sindaco Raggi" o "il presidente Boldrini" sia ideologicamente e persino grammaticalmente sbagliato, e con l'idea che questo possa mantenere in vita un'idea retrograda che considera certi ruoli come "tipicamente maschili" (al di là del mero dato statistico) e quindi che tratta le donne in quei ruoli in modo diverso. Però, in un momento storico in cui qualche assoluto folle suggerisce senza apparente intento satirico di rendere il sostantivo "amore" di genere neutro, bisogna non perdere di vista due punti imprescindibili sulla questione. 

  1. Non commettiamo l'errore grossolano di confondere il genere grammaticale con il genere "reale".

    Frege e il buon vecchio Saussure ci insegnano da ormai più di un secolo che la lingua non classifica direttamente la realtà, i referenti reali del discorso, bensì dei concetti, delle idee, delle divisioni arbitrarie della realtà che cambiano da lingua a lingua, o meglio, che fanno parte della lingua stessa. Indi per cui, ad esempio, la lingua giapponese distingue i concetti di ‘fratello maggiore’
    (, ani) e ‘fratello minore’ (, otōto) in due lessemi mono-morfematici diversi, e il tedesco usa termini specifici per concetti che l'italiano nemmeno conosce quali “Schadenfreude”.[1] Le lingue naturali sono assolutamente arbitrarie nel loro legame con la realtà materiale: il fatto che in tedesco la parola per "ragazza, ragazzina, giovane donna", ovvero das Mädchen, sia di genere neutro non significa che i tedeschi pensino che le ragazze siano esseri asessuati[2], né il fatto che in siciliano "minchia" sia di genere femminile significa che i siciliani pensino che gli uomini siano in realtà delle donne.

    Il fatto che "amore" sia di genere grammaticale maschile non significa, ideologicamente o eticamente parlando, un'emerita corba di belino. Altrimenti dovremmo lottare affinché anche "ragione" sia di genere neutro invece che femminile, se no qualcuno potrebbe altrettanto sensatamente lamentarsi di come quella parola perpetui stereotipi per cui le donne hanno sempre ragione; e il mondo intero si metterebbe giustamente a ridere. Non dimentichiamoci mai che il genere grammaticale, o "classe nominale", è semplicemente un’etichetta che dice quale set di regole morfologiche è arbitrariamente assegnato a quale sostantivo, e dire "un’amore" non fa di nessuno una suffragetta rivoluzionaria.


    Insomma, in parole povere:
    la lingua è indice di e può influire su il modo in cui si vede la realtà, ma questo non significa che ci sia assoluta identità fra le due cose.
      

  2. L'italiano ha già un corrispettivo funzionale del neutro: il maschile.

    L'italiano ha due generi grammaticali
    (o "classi nominali"): maschile e femminile. Questo ci distingue ad esempio dal tedesco e dal latino, che hanno anche il neutro, dall'inglese e dal giapponese, che non ne hanno nessuno, dallo zande, che ne ha quattro (umano maschile, umano femminile, animato, altro), e dal polacco, che ne ha di fatto cinque (al singolare ci sono maschile, femminile, e neutro, e al plurale si distingue invece in virile per esseri umani maschili e non-virile per altri esseri umani, animali e oggetti inanimati).[3] Tuttavia, questo non significa che in italiano la realtà sia distinta esclusivamente in "maschio" e "femmina", ovvero che non esista un corrispettivo funzionale del genere neutro. Se andiamo ad esaminare l'etimologia latina di molte parole maschili italiane, scopriamo che c'è un'ampia casistica di sostantivi la cui forma italiana deriva in realtà da quella che in latino era la forma neutra, e che i due generi (maschile e neutro) si sono di fatto fusi. Se indichiamo un gruppo di cinque femmine e un maschio diciamo "i ragazzi"; se diciamo "esco con gli amici" non escludiamo che nel nostro gruppo di amici ci siano ragazze (che siano una parte minoritaria, maggioritaria, o addirittura totale); mentre, al contrario, dicendo "esco con le amiche" escludiamo categoricamente la presenza di maschi nel gruppo. È quindi chiaro che in italiano il genere maschile ricopre di fatto il ruolo del neutro, del non-marcato, del non-specificato, mentre il femminile costituisce una marcatura speciale. Quindi: chi afferma che usare "il sindaco" o "l'assessore" al maschile può significare riferirsi al ruolo in sé, nella sua neutralità, a prescindere dal sesso della persona che lo ricopre, dice qualcosa di linguisticamente esatto; non è l'unico e solo modo corretto di esprimersi, ma è esatto.


    Poi, volendo, possiamo discutere se sia giusto "nascondere" il femminile nel "non-marcato" o se non sia piuttosto opportuno usare in ogni circostanza espressioni che fanno riferimento esplicito a entrambi i generi (es: "I cittadini e le cittadine", "I bambini e le bambine" ecc.
    [4]), ma definire sessista e misogino l'uso attuale, o ancora peggio chi ne fa uso perché gli strumenti linguistici correnti sono quelli, è semplicemente delirante.

Detto questo, è altrettanto esatto e persin necessario usare la forma femminile di nomi di ruoli e professioni laddove questo sia opportuno. Il problema è proprio capire dove, quando, e come sia opportuno. La regola generale è: fate riferimento all'Accademia della Crusca, quella è gente che ha giustamente sdoganato l'uso del "a me mi" ricordando a tutti che in linguistica esistono anche gli assi pragmatici e tematici, quindi sanno di cosa stanno parlando. Voglio però marcare alcuni punti chiave per evitare che questo fronte della lotta per la parità di genere si trasformi in una parodica cavalcata di idiozie, minando la credibilità della causa (incidentalmente, se mai nel futuro scriveranno libri sul femminismo nordamericano del primo ventunesimo secolo, "Una parodica cavalcata di pericolose idiozie che minano la credibilità della causa" sarebbe un sottotitolo tristemente appropriato).
  • In frasi come "Maria Rossi è stata eletta al ruolo di sindaco" o "Maria Rossi esercita la professione di avvocato", usare quei sostantivi al femminile non sarebbe solo non necessario, sarebbe proprio sbagliato: il riferimento del sostantivo in esame è al ruolo, al concetto nella sua neutralità, quindi è richiesto l'uso della forma neutra, non-marcata (ovvero: il maschile). Per lo stesso principio per cui il mestiere di bidello è maschile anche se è un ruolo sia statisticamente che, per così dire, "pregiudizialmente", femminile.
  •  Per termini quali presidente o dirigente o insegnante o cantante, che derivano dal participio presente di un verbo e sono, di conseguenza, invariabili sul genere, la flessione femminile va esclusivamente sull'articolo e sugli eventuali aggettivi. Sono, per così dire, termini naturalmente neutri. Propongo la crocifissione in sala mensa e l’esposizione di un'ora al pubblico ludibrio per chiunque dica, seriamente o scherzosamente, "la presidenta". Similmente, anche il suffisso -ista che indica 'persona che svolge un’attività, segue un’ideologia o presenta determinate caratteristiche' (Treccani) è naturalmente neutro nonostante l'uscita in -a: quegli anti-femministi che protestano "eh ma allora dovremmo usare camionisto e artisto" si accomodino in sala mensa, c'è una croce anche per loro.
  •  È fondamentale distinguere quando, in una frase, il sostantivo in esame si riferisce alla persona (ad esempio: "La professoressa Rossi è preparata e competente" o "Rossi è una professoressa preparata e competente") e quando si riferisce al ruolo (ad esempio: "Un professore deve essere preparato e competente, e la signora Rossi lo è", o “È difficile trovare un professore preparato e competente come Maria Rossi”[5]); in quali contesti sia opportuno fare riferimento al ruolo, e in quali alla persona. In molti casi questa distinzione è relativamente chiara e palese (ad esempio, il "burocratese" di molti documenti fa riferimento al ruolo prima che alla persona), ma in molti altri c'è un'ambiguità tale che entrambe le forme possono essere teoricamente corrette, e sarà la declinazione stessa del sostantivo e dei suoi dipendenti sintattici a indicare il referente inteso dal parlante.
  • Il suffisso -essa in termini come "avvocatessa" si porta dietro una storia di uso dispregiativo o ironico, tant'è che fino a pochi decenni or sono veniva usato per riferirsi, ad esempio, non a una donna-avvocato, ma alla moglie di un uomo-avvocato. È meglio evitarlo, quindi, nella formazione di nuove parole, e usare una più semplice flessione femminile in -a: avvocata, sindaca, assessora. Fanno eccezione, ovviamente, i termini già ampiamente affermati anche in ambito professionale, come "dottoressa", "campionessa" e "professoressa". Sì, mi rendo conto che formare il femminile di "dottore" in "dottrice" sarebbe morfologicamente sensato (-tore diventa -trice in molti termini simili, come "traduttore/traduttrice" o "portatore/portatrice" o "nuotatore/nuotatrice"), ma la lingua è convenzionale e se dite "dottrice" a una dottoressa quella come minimo si sente presa per il culo, e se dite "professora" alla vostra professoressa di italiano quella come minimo vi mette un 2. Nel dubbio piuttosto usate il termine non-marcato. Eccezione nell'eccezione è, a mio avviso, il termine "studentessa", in quanto rientra nel caso precedente dei sostantivi derivati da participi presenti e quindi la versione maschile/non-marcata "studente" può ragionevolmente essere considerato un termine neutro.
La lingua italiana è una creatura innocente, come qualunque altra lingua, e come qualunque altra lingua può negli anni cambiare le sue regole e i suoi usi; tuttavia, questi cambiamenti non possono essere imposti con la forza da una singola agenda politico-culturale, soprattutto se confliggono con le regole esistenti. Se poi, a ben vedere, le regole esistenti già permettono di raggiungere l'obbiettivo di questa agenda, applicandole con la dovuta attenzione e con il dovuto approfondimento, forzare cambiamenti non necessari rende la nostra causa più difficile da digerire, più violenta, e più apparentemente insensata di quello che dovrebbe essere. La lingua è apolitica, l'uso che se ne fa è o può essere politico, quindi questi cambiamenti devono passare attraverso la linguistica e la grammatica, e devono essere promossi da coloro che sanno come interfacciarli allo stato attuale della lingua, non attraverso generiche boldrinate o accuse a sproposito di maschilismo; né, dall'altro fronte, devono essere opposte come se richiedessero sforzi e rivoluzioni innaturali quando, molto spesso, basta capire e applicare i meccanismi già esistenti. Insomma: comunque la pensiate, cercate di non farvi crocifiggere in sala mensa.



[1] i.e.: il signifiant (per usare la terminologia saussuriana) “albero” non è un simbolo per questo o quell’albero reale, ma del signifiè ‘albero’, ovvero un’idea, un concetto di albero condiviso da tutti i parlanti quella lingua, e entrambi questi elementi fanno parte del segno linguistico. Per questo per me è sempre difficile spiegare il verbo “disbelinarsi” ai non liguri.
[2] Semplicemente, il suffisso vezzeggiativo  -chen rende qualunque parola di genere neutro. Similmente, “Bruderchen” (fratellino) è neutro e non maschile, “Fräulein” (signorina) è neutro e non maschile, ecc. La ragione di questo genere è puramente grammaticale, morfologica, e non semantica o “reale”.
[3] Si palesa la necessità di un’ovvia battuta sul fatto che se Tumblr fosse una lingua avrebbe un centinaio di generi grammaticali.

[4] In Germania è pratica comune, con addirittura la regola specifica di dire sempre prima il femminile, ma il risultato è, a mio avviso, efficace ma inutilmente macchinoso e innaturale, oltre che eccessivamente trying too hard. Piccola nota divertente: non so se sia vero o meno, ma il mio lettore di tedesco ci raccontò un giorno che qualcuno aveva addirittura seriamente proposto di cambiare tutti i cartelli delle zone pedonali per scriverci sopra "Fußgängerundgängerinzone" invece di "Fußgängerzone".
 
[5] Usare “professoressa” in queste frasi vorrebbe dire restringere il campo di validità di quelle affermazioni alle sole donne-professore: vorrebbe dire affermare che solo le donne-professore devono essere preparate e competenti, mentre gli uomini-professore no; oppure che è difficile trovare donne-professore preparate e competenti come Rossi, mentre tra gli uomini è normale. Esatto: usare il femminile dove non necessario per fare la figura dei super-progressisti potrebbe dare alla vostra frase un significato sessista e misogino.

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